Un mese fitto di appuntamenti, quello di Maggio, per la fase conclusiva della rassegna Roma Città Teatro in scena presso il Teatro Piccolo Eliseo di Roma.
Dopo Chiara Caselli col suo "Molly Bloom", infatti, dal 10 al 12 Maggio 2011 sarà il turno di una tre giorni che vedrà protagonista la Compagnia Scimone Sframeli in "Nunzio". Lo spiettacolo di Spiro Scimone diretto da Carlo Cecchi è stato opera vincitrice selezione IDI (Istituto Dramma Italiano) Autori Nuovi 1994, medaglia d’oro IDI per la drammaturgia 1995, nomination premio speciale UBU 1995.
I protagonisti Spiro Scimone e Francesco Sframeli interpretano due uomini ai margini della vita. L’uno sempre in giro, per misteriosi incarichi, forse un killer. L’altro chiuso in casa, di guardia al frigorifero e alla malattia che gli squassa i polmoni. Si ritrovano chiusi nello spazio di una cucina, attorno al tavolo che domina al centro di quell’unico ambiente che è casa, rifugio, tana. Dove entrambi si nascondono: a sé, al mondo. Entrambi incapaci di decidere del proprio destino, l’uno costretto a ubbidire agli ordini di un invisibile mandante, l’altro ad affidarsi alle pasticche e al lumicino acceso davanti all’immagine del Sacro Cuore, nel rifiuto di ammettere la malattia che lo sta uccidendo. In quello spazio chiuso il mondo esterno penetra solo attraverso i rumori di una sirena, il vuoto risuonare di telefonate mute, colpi battuti alla porta. E attraverso le buste infilate sotto la porta con cui arrivano soldi, biglietti aerei, una fotografia, forse le istruzioni per una prossima missione.
Situazione pinteriana, come si suol dire, viene in mente il celebre Calapranzi in cui pure due imprecisati sicari attendono gli ordini in arrivo dal montacarichi del titolo. E certo pesa la lezione del maestro inglese, come pure si potrebbero mettere in campo i nomi di Koltès o Fassbinder. Ma quel che intanto fa la differenza, dove cioè s’impianta l’originalità stilistica di Scimone, è la lingua messinese in cui è scritto il breve atto unico, come a dire un siciliano di frontiera, allusivo e al tempo stesso facilmente comprensibile. Lingua non astratta o letteraria, ma nata all’interno dell’esperienza di scena condivisa dai due giovani attori.
Il testo è costruito su un dialogo serrato, fatto soprattutto di domande e risposte ribattute, ossessivo nelle sue ripetizioni.
L’idea della morte, mai nominata, è l’ideale punto di incontro delle due solitudini dei protagonisti. Quella che l’uno dà per mestiere. Quella che l’altro, Nunzio, riceve poco per volta, ucciso dal veleno della fabbrica, dalla polvere respirata sul luogo di lavoro, contro cui poco valgono le pillole generosamente offerte dal padrone. (C’è poco da fare, la morte non si condivide, né la propria né quella dell’altro). A cui si possono opporre soltanto i piccoli rituali della quotidianità, le cose da mangiare preparate con le proprie mani, una tazzina di caffè con la sigaretta. E quei discorsi scontrosi, quei più lunghi silenzi così profondamente incisi nel carattere dei siciliani. E i gesti d’affetto rudi come il regalo di una giacca che può anche produrre un momento di commozione. Non c’è però rischio di patetismi, in Nunzio. Che anzi la chiave privilegiata è piuttosto una comicità agra e svagata, costruita sui corpi degli interpreti, clown privati di contesto e tesi verso un’apparente immobilità, in realtà una sottile trama di azioni e reazioni che si ricreano sera per sera. E’ in quei corpi sempre consapevoli di esistere su una scena, nell’intimità della loro lingua, nella complicità dei loro gesti, che leggiamo una disperata volontà di resistenza umana.
Ma la compagnia Scimone Sframeli non scenderà dal palco del Piccolo Eliseo dopo questa rappresentazione: dal 13 al 15 Maggio, infatti, li vedremo ancora con "BAR". Stesso autore e stessi protaginisti, stavolta per la regia di Valerio Binasco, si caleranno ancora nei panni di due uomini che si nascondono a sé e al mondo, i due amici di Bar, il cameriere con ambizioni di barman e l’avventore che non si sa cosa faccia, giocatore a carte e con la vita. Anche loro impelagati in storie poco chiare o che diventano chiare alla lunga, c’è sempre qualcosa di sanguinoso in agguato.
Come nel precedente Nunzio si confrontano sulla scena due esperienze umane inizialmente distanti, avvicinate però da una comune marginalità, nel senso proprio dello stare ai margini della vita. Per la sua seconda prova teatrale Spiro Scimone ha scelto l’ambientazione all’apparenza aperta di un luogo pubblico. Ma del bar del titolo si vede, e si vive, soltanto il retro. Soltanto un muro anzi, che la spoglia essenzialità della pittrice scenografa Titina Maselli dipinge di un rosso acceso, contro il quale i due uomini sembrano schiacciati insieme ai pochi oggetti presenti, il bidone della spazzatura e qualche cassa di bibite, una radio portatile. Fissati al loro destino di perdenti, in attesa della svolta che non arriva mai, che forse arriverà domani, di sicuro arriverà domani. Per l’uno è il sogno di preparare cocktail in un locale dove si suona musica americana, un posto di classe e non quel bar di periferia. Per l’altro quello di un lavoro stabile, che rimedi a quel suo vivere d’espedienti. Ma il cameriere Nino deve intanto fare i conti con la convivenza di una madre presumibilmente oppressiva, che a ogni compleanno gli regala una sgargiante giacca da lavoro di un colore diverso. E il disoccupato Petru con un boss locale che lo taglieggia con pretese di doni, vuole anche l’orologio e gli ori di famiglia, e pretende tangenti sullo stipendio futuro. C’è infatti un terzo personaggio nella vicenda, invisibile ma incombente minaccia, il fantomatico Gianni che promette lavoro e picchia le donne, anche quella di cui è innamorato il mansueto Nino. Contro il quale lui può solo prendere la piccola vendetta di mettergli mosche nel bicchiere. O chissà se non è sogno anche quello o vanteria, in quel bar non sembra mai entrare nessuno e il suo malpagato lavoro è più che altro pulire per terra. In cima alla rossa parete si apre una finestra. Arrampicandosi su una scala è possibile osservare quel che accade di là, il mondo indecifrabile e ostile che sta all’esterno, come in una commedia beckettiana. Il mondo dei due è di qua, in questo retrobottega della vita. Di qua soltanto sembra conservarsi una possibilità di sopravvivere, nella soppressione dell’azione che invece ha uno sviluppo violento al di fuori. Tentano infatti una stangata e naturalmente avrà esito fallimentare. Ma non è detto che debba sempre finir così. Ecco che il loro aguzzino è stato trovato ammazzato, chissà da chi. Un delitto liberatorio, com’è spesso quello dei più deboli. Niente di più ci dice il testo e niente di più vuole svelare la regia di Valerio Binasco.
Più che la vicenda che arriva come un’eco conta del resto la situazione che si realizza sulla scena, il rapporto fra due umanità straniere l’una all’altra che si scoprono capaci di solidarietà. Laddove tocca proprio al dialetto, il messinese di Scimone e Sframeli, diventare il segno di un’identità, nello sradicamento delle loro vite. Dietro il velo leggero delle parole, dietro l’intreccio veloce dei dialoghi, costruiti ancora sul meccanismo delle ripetizioni e delle pause, emerge lentamente un altro testo, un’altra storia. A cui si può soltanto alludere, se appena gli si avvicinano qualcosa li porta altrove, su altre piste. Qualcosa di doloroso che appare dalle pieghe della comicità. Che per un attimo il teatro permette di toccare, come in un crepuscolo della coscienza.